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La Poesia e i numeri

 

[Spazio Sig.ma di questo mese è dedicato all'uscita del volume La poesia e i numeri, a cura di Luca Pietromarchi, Pacini Editore, Pisa 2013, nella Collana Malatestiana "Studi di letterature comparate (seconda serie)". Il libro è il frutto di una Ricerca Malatestiana sviluppata tra giugno 2008 e gennaio 2010, ed è acquistabile anche sul sito dell'editore Pacini (clicca qui)Intanto, su Spazio Sig.Ma vi proponiamo l'introduzione al volume, accompagnata dall'immagine della locandina scelta per i seminari di ricerca (Tobia Ravà, Profondo interiore, 2004). Buona lettura!]

 

INTRODUZIONE

Luca Pietromarchi

 

Il poeta non è un matematico. Eppure, conta sempre. Conta il numero dei versi, il numero delle sillabe, il numero delle strofe. Non smette di confrontare la parola al numero, assegnando alla poesia la funzione di arginare l’infinito discorso della prosa del mondo costringendola entro un rapporto numerico. La poesia è un incessante confronto della parola con l’infinito – infinito metafisico, infinito spaziale, ma anche infinito del discorso – che essa numera, per sondarlo, capirlo, tradurlo. Baudelaire: «Tutte le arti danno un’idea dello spazio, perché esse sono numero e perché il numero è una traduzione dello spazio»[1]. La poesia letteralmente traduce l’infinito in numero: ogni testo poetico è formalmente racchiuso in un ordine numerico, che sia l’ordine orizzontale del numero delle pagine, quello verticale del numero dei versi, quello che numera l’ordine dei componimenti, facendo di ogni libro di poesia un libro cifrato.

La parola numerata della poesia riassorbe l’infinito nel calcolabile, misurabile, abitabile. Essa scongiura l’ansia dell’illimitato e dell’incalcolabile che i numeri possono suggerire, assieme all’immagine di un universo dominato dal principio di un’incontrollata moltiplicazione di ogni cosa, a sua volta suscettibile di produrre il sentimento pascaliano di una vertiginosa disseminazione dell’essere.

Il romanticismo è abitato da questa intima paura della disseminazione. Essa procede dalla consapevolezza di essere chiamati a vivere in un universo che, proiettato nell’infinito del tempo, si allontana da un’ideale matrice unitaria, garanzia di armonia e di ordine. Da qui la centralità del tema romantico della caduta, nonché la fascinazione e la repulsione, ovunque riscontrabile, nei confronti dell’abisso. Caduta dell’essere nel Tempo, ma anche caduta del mondo lontano dalla sua matrice originaria, nell’abisso dell’incalcolabile. E questo sentimento della caduta, che riattiva il mito del peccato originale, è inteso come caduta in un mondo di frammenti che sono le schegge provocate dall’esplosione del principio di unità che presiedeva al mondo delle origini. Questa unità, l’immaginazione romantica, recuperando la Sapienza biblica che diceva il Creato disposto secondo «misura, numero e peso» (Libro della Sapienza 11, 21), la proietta nell’immagine del numero Uno, che contiene ogni numero, modulandone l’infinità in rapporto armonico. E quella caduta, che sancisce il passaggio dal mito alla storia, essa la raffigurerà invece come frantumazione dell’Uno che lascia sciamare nel mondo l’infinità dei numeri, rendendone inaudibile l’originaria armonia.

È questa proiezione della crisi romantica nella figura poetica del numero che i contributi di questo volume indagano, alla luce della domanda che Baudelaire riconosce come il centro nevralgico dell’opera di Hugo: «Come ha fatto il Padre uno a generare la dualità e a trasformarsi in una quantità innumerevole di numeri? Mistero! La totalità infinita dei numeri può o deve concentrarsi di nuovo nell’unità originaria? Mistero!»[2].

Questa domanda è cruciale per tutto il romanticismo, e riassume perfettamente sia l’anelito all’unità che lo pervade che la tensione che lo attraversa, mirando alla ricomposizione del frammento nell’alveo di un principio unitario: affinché dietro le apparenze di un mondo governato dall’incalcolabile, possa essere ritrovata la chiave armonica dell’universo, e di nuovo immaginato il suo originario, sapienziale, ordine numerale. Alla paura del numero, inteso come terrore del plurale, si accompagna quindi la fascinazione del numero come figura dell’ordine occulto del mondo e metafora di un’armonia che si affida alla matematica, alle scienze, ma anche alla poesia, per essere reintegrata nella sua sovranità.

Numerando la sua parola, il poeta ricalcola il mondo. Egli è il profeta moderno che getta il suo sguardo nell’abisso che sottende il reale, lì dove l’Uno è caduto e dove giace tra le macerie dei numeri. Dirà Hugo:

 

[…] J’ai vu des choses sombres

J’ai vu l’ombre infinie où se perdent les nombres.

 

Ma egli non si limita a scrutare il mistero del plurale. I poeti sono i maghi:

 

Qui ramassent dans les ténèbres

Les faits, les chiffres, les algèbres,

Le nombre où tout est contenu

[…] Et tous les morceaux noirs qui tombent

Du grand fronton de l’inconnu![3]

 

Se dunque la poesia romantica contempla nel numero la cifra dell’originario ordine armonico del mondo, è con la pretesa di restaurarne l’immagine nel suo canto numerato: ricollocando al suo posto quel frontone sul quale non è difficile immaginare di poter leggere le parole che sormontavano l’Accademia platonica: «Non entri chi non è geometra».

Il numero romantico non è un’unità di misura, non ha valenza scientifica. Si tratta di una parola la cui vaga denotazione è risolutamente dominata da una potente connotazione di ordine magico, esoterico e filosofico che, fino alle soglie della modernità, la poesia ha declinato in modo sempre diverso, cogliendo l’essere ai bordi dell’illimitato ma con l’ambizione di restituire l’immagine di un infinito di nuovo abitabile, ovvero numerabile.

 

Nella loro valenza fisica e mentale – scrive Mario Merz, l’artista contemporaneo che più di ogni altro è vicino a questa tematica – i numeri servono per la misurazione esistenziale del mondo, per posizionare proprio in rapporto al tempo e allo spazio con un metodo che è tra conoscenza scientifica e pensiero magico e mito[4].

Ed è appunto alle oscillanti valenze del numero, da strumento matematico a figura artistica, che Michele Emmer ha dedicato il suo contributo.

I saggi qui riuniti non intessono un dialogo tra poesia e matematica, che dialogo non c’è. Eppure, senz’altro qualcosa filtra dal mondo della ricerca scientifica in quello dell’immaginazione poetica. I versi di Hugo appena citati, evocando la rovina di un edificio che fa crollare a terra numeri, cifre e algebre, potrebbero essere considerati come la straordinaria raffigurazione dell’effetto provocato dalla rivoluzione che, negli anni centrali dell’Ottocento, scardina la geometria tradizionale, suscitando, per riprendere il titolo di un celebre libro di divulgazione scientifica, lo «choc del futuro»[5]. Sono gli anni in cui Lobacevskij e Janos Bolyai (nato nel 1802, lo stesso anno di Hugo), costruiscono i primi esempi di geometrie non euclidee che smentiscono il quinto postulato di Euclide (dati una retta e un punto che non giace sulla retta, è possibile tracciare per quel punto una sola retta parallela alla retta data), su cui poggiava la geometria classica di Newton e di Laplace, e la visione del mondo che ne conseguiva.

 

La cosiddetta geometria immaginaria postula che lo spazio «non ha un numero fissato di dimesioni dal momento che si possono considerare spazi con un numero infinito di dimensioni»[1]. In una lettera al padre, Bolyai poteva esclamare dinanzi alla dilatazione iperbolica del possibile matematico che le sue scoperte lasciavano intuire: «Ho creato un altro, nuovo universo dal nulla!»[2]. L’introduzione degli spazi geometrici astratti e del concetto di infinito, che rende vana la pretesa di misurare l’infinito stesso – si pensi ad Archimede che nell’Arenario assicurava che non era impossibile stabilire il numero dei granelli di sabbia del mondo – offusca, come sintetizza lo storico della matematica Mario Livio, «il significato di quantità e di misurazione al punto da renderli irriconoscibili»[3]. Il numero, di conseguenza, da strumento di misurazione, diventa un’entità, secondo le parole di Dedekind, nato nel 1831, «totalmente indipendente dalle nozioni e dalle intuizioni di spazio e tempo», ovvero figura di una vertiginosa facoltà di moltiplicazione che permette di immaginare un’altrettanto vertiginosa dilatazione dello spazio e del tempo in cui, visione degna di Pascal, l’universo euclideo, e poi kantiano, è reso alla stregua di un punto perso nell’infinito. Ed è la vertigine creata da un numero che si moltiplica all’infinito, trascinando nella sua folle danza ogni concetto di individualità e l’idea stessa di un’afferrabile realtà, che si rifrange nella poesia di John Donne, qui analizzata da Silvia Bigliazzi nella prismatica luce dei sonetti shakespeariani. 

Il frontone che nella poesia di Hugo cade a pezzi è dunque quello dell’edificio pitagorico-euclideo, e quei numeri caduti a terra annunciano forse la proliferazione dei numeri irrazionali, immaginari e dei sistemi numerici complessi: numeri che dischiuderanno la possibilità di immaginare altri mondi e altre dimensioni proiettando il finito nell’infinito. «Il mondo degli astri e il mondo delle anime sono finiti o infiniti?». È sempre Baudelaire che parla di Hugo. Ma la domanda non ha alcuna derivazione pascaliana, ovvero morale. Essa fa esplicitamente riferimento alla rivoluzione scientifica appena evocata: scaturisce da uno sguardo che ha appreso a riconoscere nell’edificio della scienza classica delle fessure che lo rendono inadeguato a descrivere gli spazi infiniti che le geometrie eretiche prospettano. «Ah! – prosegue Baudelaire sempre a proposito di Hugo, malgrado Newton e malgrado Laplace – la certezza astronomica non è, oggi, a tal punto grande da non consentire all’immaginazione di inserirsi nelle vaste lacune che la scienza moderna non ha ancora esplorato»[4].

William Blake, come ricorda Claudia Corti nel suo saggio, ha racchiuso la raffigurazione dell’universo teologico nella celebre immagine di Dio che limita l’estensione del Creato all’apertura del suo compasso divino. I numeri della scienza post-euclidea fanno immaginare uno spazio che si estende oltre la circonferenza disegnata da quel compasso. E sono questi spazi che, secondo Baudelaire, la poesia di Hugo offre alla contemplazione:

 

Anche se dei sistemi, obbedienti a leggi ignote, imitando i capricci di una geometria troppo vasta e complessa per il compasso umano, potranno scaturire dai limbi dell’avvenire, cosa può mai esserci, in questo pensiero, di così esorbitante, di così mostruoso, da uscire dai limiti della congettura poetica?[5]

 

La poesia di Hugo lancerà risolutamente la sua sonda nell’ «Ombre infinie où se perdent les nombres», nel gorgo, come recita un verso delle Contemplations, dei «Chiffres tumultueux, flots de l’océan Nombre»[6]. Ma l’impianto metrico della poesia tradizionale non potrà rimanere illeso addentrandosi in questi spazi congetturali. E già si prospetta la sconnessione del verso classico che condurrà al verso libero, ovvero a un verso che rinuncia al rispetto del numero per affidarsi ai capricci di una geometria variabile, pronto a dissolversi nella pagina bianca del Livre di Mallarmé, il cui inesauribile confronto con i sortilegi astrali del numero Delia Gambelli qui sapientemente esplora, o nel delirio numerale dei manifesti di Marinetti studiati da Andrea Afribo. Se il primo, seppur antifrasticamente, chiede ancora alla combinazione dei numeri dei dadi di sconfiggere la notte del caso che li ha prodotti – «Un coup de dés jamais n’abolira le hasard» – il secondo si addentra spavaldamente in quella notte celebrando «l’essenza divina dell’azzardo»[7].

 

Ma prima di soccombere a questa minaccia, la poesia romantica ha lungamente cercato di mantenersi in una posizione decisamente conservatrice che consiste nell’accogliere le suggestioni provenienti dal neopitagorismo degli illuminati settecenteschi, ovvero dalla declinazione esoterica del platonismo che attribuisce al numero il potere di arginare l’idea stessa di infinito.

L’unità metafisica che Pitagora designa come origine della creazione è di ordine numerico. Dio è il primo dei numeri, come si evince dalla cosiddetta preghiera dei pitagorici trasmessa da Giamblico: «Invochiamo la tua benedizione, numero divino, che hai generato gli dei e gli uomini!». Il numero, designato come «fontana e radice di tutte le cose», si configura come «la radice perenne della fonte della Natura». «Organizzata e ordinata secondo il Numero» la realtà risulta sottesa da un ordine numerologico immutabile, garanzia di ordine, proporzione e armonia. Armonia in senso anzitutto musicale alla luce dell’intuizione pitagorica che la progressione armonica delle note musicali corrisponde a rapporti di numeri primi interi. Proiettata su una dimensione cosmica, questa intuizione permette di immaginare l’universo retto da un rapporto numerico che mantiene il creato all’interno di un disegno musicalmente armonico[8].

Questo principio, Platone l’ha sviluppato nel Timeo, dove al vertice della scala gerarchica del mondo ideale si collocano i numeri ideali, potenziando il valore cosmologico che i pitagorici assegnavano al Numero. Agostino raccoglierà la tradizione pitagorica trasmessa dal pensiero platonico, immettendo la speculazione aritmologica in ambito cristiano: «Null’altro – si legge nel De Ordine (II, 15-42) – piace alla ragione oltre la bellezza, e nella bellezza le figure, nelle figure le dimensioni, e nelle dimensioni il numero». Da questo ceppo si diramano tutti i rami dell’aritmosofia che vorranno prestare alla matematica e alla geometria una valenza mistica finalizzata a scoprire l’armonia numerica che si nasconde dietro le apparenze del reale, così come Platone riconosceva nel dodecaedro la forma «usata dalla divinità per ricamare le costellazioni». E paradossalmente breve è il passo che condurrà, diciotto secoli dopo, Galileo, nel Saggiatore, ad affermare che:

 

La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), […] scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche […]; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto[9].

 

La matematica, in quest’ottica, è la lingua madre di Dio, e i Numeri ne sono il lessico.

Non va trascurato il nutrimento che queste speculazioni hanno tratto dall’indagine scientifica che da tremila anni interroga i misteri del numero d’oro: la scoperta che la proporzione cosiddetta aurea, determinata da due segmenti di una linea aventi un rapporto corrispondente a 1,618, governa, in matematica la successione dei numeri di Fibonacci; in natura la disposizione delle foglie di alcune piante e la struttura dei minerali; in architettura, forse, il disegno delle piramidi e del Partenone, presta al sogno pitagorico di Platone di avvicinare «il Numero dell’Anima del mondo» (Timeo) una plausibilità prometeica quanto scientifica. Plausibile diventa la speranza di scongiurare l’idea stessa di infinito, di caso e di caos che configura l’universo come un «oscuro labirinto», affidando al numero il potere di vincere le tenebre che avvolgono il Mysterium cosmographicum. È questo il titolo del primo trattato di Keplero (1596), contenente, come si legge nel frontespizio, «il mistero cosmografico delle mirabili proporzioni delle Sfere Celesti e delle Vere e proprie cause del numero».

Specializzandosi, la scienza si allontanerà sempre più da questo orizzonte filosofico, lasciando che il linguaggio misteriosofico si appropri di questa tematica, facendo sfociare la scienza dei numeri in speculazioni aritmologiche (Kircher, Aritmologia, o dei misteri nascosti nei numeri, 1665) dai contorni spesso fumosi, ma non per questo meno suggestive. E sono le suggestioni della numerologia esoterica settecentesca, di matrice neopitagorica, che il romanticismo recupera per contrastare il sentimento vertiginoso dell’incalcolabile.

La riprova maggiore della fascinazione romantica nei confronti della numerologia esoterica, in particolare dell’opera di Swedenborg, di Saint-Martin e di Fabre d’Olivet, è costituita dai Frammenti matematici di Novalis e dai romanzi analitici di Balzac, Louis Lambert e Séraphita. A Novalis e alla sua poetica del numero è dedicato lo studio di Camilla Miglio, la cui ambizione di interrogare il segreto cifrato dell’universo è vicina a quella che farà dire a Lambert: «Il Numero che produce ogni varietà genera allo stesso modo l’armonia, la quale, nella sua più alta accezione, è il rapporto tra le parti e l’Unità»[10]. E subito Balzac aggiunge: «Il Numero è un testimone intellettuale che appartiene solo all’uomo, attraverso il quale può giungere alla conoscenza della Parola». E questo Numero che promette di svelare la grammatica celeste del mondo, Séraphita efficacemente lo definirà: «il primo scalino del peristilio che conduce a Dio».

 Eppure, la fiducia romantica nel numero esoterico non è sempre salda. La percezione della rivoluzione scientifica a cui accennavamo prima, ovvero che il numero possa diventare strumento che non argina l’infinito, ma che ne approfondisce l’estensione, filtra già nelle pagine di Séraphita, in cui traspare nettamente che Balzac fosse a conoscenza della rivoluzione della geometria euclidea che avrebbe portato da lì a poco Riemann a formulare la geometria degli spazi curvi.

 

La vostra geometria – dice Séraphita – stabilisce che la linea retta è il percorso più breve da un punto all’altro, ma la vostra astronomia dimostra che Dio ha proceduto solo per curve. Ecco dunque nella stessa scienza due verità ugualmente provate, ma che si contraddicono l’un l’altra[11].

 

Da qui l’immediato sospetto gettato sulla scienza dei numeri, a tal punto ormai sofisticata da risultare minata nella sua pretesa di comprendere un infinito che si estende ben oltre l’apertura del suo compasso:

 

Il Numero, con i suoi infinitamente piccoli e le sue Totalità infinite, è una potenza di cui vi è nota una piccola parte, e la cui portata vi sfugge. Vi siete costruiti una capanna nell’Infinito dei numeri […] e avete gridato: «È tutto qui!»[12]

 

Svalutato il numero matematico come cifra dell’universo, rimane ancora integro il prestigio del numero esoterico, per quanto la sua forza di suggestione risulti nettamente affievolita. Il poeta esce da quella capanna e scruta il cielo innumerevole continuando a cercarvi l’intuizione di un ordine al quale affidare la sua parola, ma è ormai consapevole che non è tutto qui. È tale consapevolezza che farà prediligere a Hugo la rima «nombre/ombre». E sarà con spirito di non dissimulata ironia che Lautréamont, a cui sono dedicate le pagine di Elisabetta Sibilio, parlerà delle «Saintes mathématiques», affidandosi ad un’enumerazione sempre più caotica per esprimere una realtà governata da un numero che non riunisce, ma che moltiplica: che dissesta la strofa, rompe la misura del verso rendendo sempre più difficile l’esercizio della vocazione armonica della parola poetica.

È questa sfida che la poesia del Novecento sembra raccogliere, oscillando tra il numero gridato dei futuristi e il formalismo degli ermetici, tra l’enumerazione del mondo e la numerazione della poesia. Essa, si pensi a Queneau, la cui composizione di Centomila miliardi di poesie è analizzata da Anne Marie Jaton, esplorerà attraverso il tema del numero i dedali dell’infinito, ma allo stesso tempo lascerà intuire la presenza di un labirintico disegno geometrico che governa, incrociandoli come parallele su di un piano curvo, i destini umani. Si tratterà quindi di valutare la persistenza, o l’assenza, nella poesia novecentesca della fiducia nel valore arcaico e pitagorico del Numero: quell’ambizione che il detective del Mistero di Marie Roget, di Edgar Allan Poe, sintetizza proclamando: «Abbiamo sottomesso l’invisibile e l’inimmaginabile alle formule matematiche». In poesia questa ambizione informa la Filosofia della composizione dello stesso Poe, dove l’ispirazione lirica diviene espressione di un preciso calcolo numerico. La suggestione esercitata dal saggio di Poe sarà considerevole, e se ne riconosce la presenza nella poetica di Valéry, analizzata da Paola Cattani alla luce della sua introduzione al libro che restaura, nel 1931, il prestigio del numero pitagorico e la valenza esoterica della sezione aurea, ovvero Le nombre d’or: rites et rythmes pytagoriciens dans le développement de la civilisation occidentale, di Matila Ghyka.

Mario Livio definisce l’influenza di quest’opera «notevole quanto inesplicabile»[13]. Ma di fatto, ricordando quanto Nicomaco attribuiva a Pitagora, ossia che «il caos primitivo, mancando di ordine e di forma fu organizzato e ordinato secondo il Numero», Ghyka riportava la parola numerata della poesia alla sua funzione originaria di ordinare il mondo. Negli stessi anni, Le Corbusier, citato da Michele Emmer, scriveva che il numero, in architettura, ha la funzione di imporre «la presenza di una sovranità»: la sovranità di un principio di ordine contro un’altra sovranità, quella del caos, che pure il numero evoca. Dotato del prestigio talismanico di riunire e allo stesso tempo del potere di moltiplicare, o di fissare nel suo ordine astratto, come nella poesia di Brodskij studiata da Alessandro Niero, la geometrica astrazione di una città come Pietroburgo, il tema del numero affiorerà nella poesia moderna come potente metafora della funzione poetica: che sia quella di tracciare il bilancio stesso dell’esistenza, dove i numeri servono a contare il peso della fatica, come nella poesia di Betocchi analizzata da Valerio Magrelli, o a suggerire, come nei poeti dell’estremo contemporaneo francese studiati da Luigi Magno, la più drammatica delle realtà – il numero di scarpe ritrovate nei lager – o a esprimere l’indicibile nell’incalcolabile, come nelle pagine intere di numeri su cui termina Anachronismes di Tarkos. È l’ambivalenza del numero in poesia che i contributi di questo volume intendono indagare, misurando, attraverso di essa, le oscillazioni della poesia tra la seduzione del caos e le sollecitazioni dell’armonia: seguendone il cammino, come ha scritto Yves Bonnefoy, «Entre le nombre et la nuit»[14].

 


[1] C. Baudelaire, Mon cœur mis à nu, in id., Œuvres complètes, a cura di C. Pichois, Gallimard, «Bibliothèque de La Pléiade», Paris 1975, vol. I,  p. 702. Nostre tutte le traduzioni.

[2] Id., Sur mes contemporains: V. Hugo, in id., Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 137.

[3]  «Ho visto delle cose oscure/ Ho visto l’ombra infinita in cui si perdono i numeri» (V. Hugo, Ecoutez. Je suis Jean…, in id., Les Contemplations, VI, 4, vv. 1-2); «Che raccolgono nelle tenebre/ I fatti, le cifre, le algebre,/ Il numero che tutto comprende/ […] E tutti i pezzi neri che cascano/ Dal grande frontone dell’ignoto» (id., Les Mages, in id., Les Contemplations, VI, 23, vv. 35-40).

[4] Citato in M. Emmer, Visibili Armonie. Arte, cinema, teatro e matematica, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 36.

[5] A. Toffler, Lo choc del futuro, Rizzoli, Milano 1971.

[6] M. Emmer, Visibili Armonie…, cit., p. 88.

[7] Citato in M. Livio, Dio è un matematico. La scoperta delle formule nascoste dell’universo, Rizzoli, Milano 2009, p. 209.

[8] Ivi, p. 226.

[9] C. Baudelaire, Sur mes contemporains: V. Hugo, cit., vol. II, p. 138.

[10] Ibidem.

[11] «Ombra infinita in cui si perdono i numeri» e «Cifre tumultuose, onde dell’Oceano Numero» (rispettivamente in V. Hugo, Écoutez. Je suis Jean…, e Un spectre m’attendait…, in id., Les Contemplations, VI, 4, v. 2 e VI, 3, v. 9).

[12] I dadi di Mallarmé sono gli stessi che Montale rilancerà nella Locanda dei doganieri, e anche il risultato sarà lo stesso: «e il calcolo dei dadi più non torna» (E. Montale, La casa dei doganieri, in id., Le occasioni, v. 10).

[13] Cfr. l’importante saggio di A. Marchetti, Harmonia mundi et atopìa du dire, in A. Siganos (a cura di), Nombres et Littérature, numero monografico di «Iris», Centre de Recherche sur l’Imaginaire, Grenoble 1994, pp. 37-51.

[14] G. Galilei, Il Saggiatore, cap. VI.

[15] H. de Balzac, Louise Lambert, in id., La Comédie humaine, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1980, vol. XI, p. 690.

[16] Id., Séraphita, in id., La Comédie humaine, cit., vol. XI, p. 821.

[17] Ibidem.

[18] M. Livio, La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni, Rizzoli, Milano 2003, p. 247.

[19] «Tra il numero e la notte» (Y. Bonnefoy, Poèmes, Mercure de France, Paris 1978, p. 158). 

 

 

 

                                                                                         

 

 

 

 



[1] M. Emmer, Visibili Armonie…, cit., p. 88.

[2] Citato in M. Livio, Dio è un matematico. La scoperta delle formule nascoste dell’universo, Rizzoli, Milano 2009, p. 209.

[3] Ivi, p. 226.

[4] C. Baudelaire, Sur mes contemporains: V. Hugo, cit., vol. II, p. 138.

[5] Ibidem.

[6] «Ombra infinita in cui si perdono i numeri» e «Cifre tumultuose, onde dell’Oceano Numero» (rispettivamente in V. Hugo, Écoutez. Je suis Jean…, e Un spectre m’attendait…, in id., Les Contemplations, VI, 4, v. 2 e VI, 3, v. 9).

[7] I dadi di Mallarmé sono gli stessi che Montale rilancerà nella Locanda dei doganieri, e anche il risultato sarà lo stesso: «e il calcolo dei dadi più non torna» (E. Montale, La casa dei doganieri, in id., Le occasioni, v. 10).

[8] Cfr. l’importante saggio di A. Marchetti, Harmonia mundi et atopìa du dire, in A. Siganos (a cura di), Nombres et Littérature, numero monografico di «Iris», Centre de Recherche sur l’Imaginaire, Grenoble 1994, pp. 37-51.

[9] G. Galilei, Il Saggiatore, cap. VI.

[10] H. de Balzac, Louise Lambert, in id., La Comédie humaine, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1980, vol. XI, p. 690.

[11] Id., Séraphita, in id., La Comédie humaine, cit., vol. XI, p. 821.

[12] Ibidem.

[13] M. Livio, La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni, Rizzoli, Milano 2003, p. 247.

[14] «Tra il numero e la notte» (Y. Bonnefoy, Poèmes, Mercure de France, Paris 1978, p. 158). 

 


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