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Teorie del comico

Si apre oggi, nel nostro sito, un nuovo spazio
che ospiterà presentazioni, testi e approfondimenti
relativi alle Ricerche, ai Progetti e alle Attività

dell'Associazione Sigismondo Malatesta: Spazio Sig.Ma.

L'evento con cui si inaugura è
il Seminario "Teorie del comico", organizzato
in collaborazione con l'Università degli studi di Napoli
"Federico II", che si terrà a Napoli il 21 e 22 marzo
(informazioni e programma).

In questo incontro saranno presentati e discussi
i risultati della Ricerca Malatestiana "Teorie del comico"

diretta da Francesco Fiorentino, 
con Silvia Carandini e Antonio Gargano.

Di seguito pubblichiamo un testo di presentazione
dell'argomento e una Breve antologia di definizioni 
del comico a cura di Francesco Fiorentino.

 

 

 

                Teorie del comico
 
 
La questione del comico e più in generale del riso da qualche tempo sembra trascurata dalla critica e da quello che resta della Teoria letteraria. Circolano antologie più o meno commentate che si limitano a riportare le storiche formulazioni e definizioni del riso. Queste ultime grosso modo possono essere ricondotte a tre modelli.


1. Quello hobbesiano, baudelairiano del riso come manifestazione di una superiorità di chi ride su colui che è motivo di riso. Come specifica Freud il riso nasce da un confronto: chi ride non spenderebbe così poco intellettualmente o così tanto fisicamente ed emotivamente quanto il “ridicolo”. Anche la teoria di Bergson sembra confermare questa interpretazione e, comunque, andando a ritroso, si può arrivare fino ad Aristotele per il quale il ridicolo consisteva in “un errore o una bruttura che non dà sofferenza, né danno” (Poetica, 1449°, 34-35).

2. Il riso – come lo interpreta Bachtin – nascerebbe dal rovesciamento in uno spazio/tempo ciscoscritto delle regole che reggono la cultura alta. Sarebbe un carnevale che ha il potere di annullare la Repressione sociale, tenendola fuori.


3. Freud distingue in tre domini ciò che costituisce l’intero campo della provocazione del riso: il comico propriamente detto, volontario e involontario, il witz e l’umorismo. Il comico nasce dal confronto e dunque da un sentimento di superiorità, mentre il motto di spirito e l’umorismo consentono una identificazione, sebbene di distinta natura, con chi o con ciò che suscita il riso, ovvero è oggetto di umorismo. Particolare interesse, come sottolinea Orlando, rivestono quei motti di spirito che presentano facciata comica e tendenziosità “spiritosa”. A Francesco Orlando spetta anche il merito di aver esteso quel particolare modello di compromesso che combina la comicità e il witz a un capolavoro indiscusso della letteratura occidentale con la mirabile analisi del Misanthrope e con altre più puntuali analisi (in particolare in una battuta dell’Avare).


Il gruppo si propone di approfondire quest’ultima proposta teorica, sia saggiandola in analisi testuali, sia cercando di declinarla in una prospettiva storico-letteraria, verificandone cioè ambiti e campi d’estensione anche in periodi letterari diversi dall’originaria applicazione alla grande letteratura. In tal senso, il gruppo di ricerca intende costituirsi allo scopo di approfondire e di fare avanzare la proposta freudiana e orlandiana di teoria del comico piuttosto che proporsi l’elaborazione di una rassegna delle teorie esistenti. In particolare, la ricerca si prefigge di affrontare le seguenti questioni:


1. In primo luogo, risulta indispensabile una riflessione che abbia ad oggetto la diversificazione tipologica con cui il modello si realizza, a seconda dei differenti contesti storici e, in ragione di essi, sia della varietà dei codici vigenti nel singolo contesto storico, sia della autorevolezza e della forza di cui i singoli codici godono, di volta in volta. Dalla considerazione di una tale problematica generale, deriva una serie di più puntuali questioni e interrogativi, come, per esempio, quelli che si indicano di seguito.


2. Per quali motivi il modello di comicità aristofanesca, nonostante il prestigio dell’autore, è stato così poco presente per secoli nella cultura europea? Solo per ragioni di censura o di difficile contestualizzazione delle opere di Aristofane o di loro “arcaica” struttura drammaturgica? Oppure intervengono anche ragioni intrinseche al modello di comicità?


3. Nell’ipotesi orlandiana che la formula Comicità/Witz risulti inevitabile in letteratura, andrebbero analizzati quei capolavori comici cinque-seicenteschi nei quali – come per la battuta dell’Avare analizzata da Orlando – l’aspetto “spiritoso” sarebbe inconscio. Si tratta di episodi di comicità in cui sono violati codici indiscussi e prestigiosi, nell’aggressione dei quali è rilevante, peraltro, la distinzione tra comicità verbale e comicità situazionale.


4. È possibile un riso in assenza di codici di riferimento morali e sociali, basato solo sulla violazione della congruità razionale? Un riso non tendenzioso o ultra-tendenzioso? È questo il caso del cosiddetto teatro dell’assurdo?


5. C’è un rapporto tra il riso e la dottrina degli stili, che è al centro delle pagine che compongono il capolavoro critico di Auerbach? Lo determinano diversamente lo stile comico che consente la rappresentazione del basso dell’esperienza umana in epoca pre-ottocentesca e lo stile serio che dall’Ottocento in poi lo sostituisce? La com-passione che accompagna il riso non è appannaggio prevalentemente di quest’ultimo? È possibile che nello stile comico – salvo illustri eccezioni – sia solo la superiorità a generare il riso?


Tali questioni, una volta che avessero anche solo prime risposte, consentirebbero di elaborare ulteriormente una proposta di definizione della comicità letteraria, che Orlando ha formulato a partire da Freud. E in particolare, coniugandola con l’impostazione stilistica di Auerbach, tratteggiare una sua declinazione storica. 

 

Per la Breve antologia di definizioni del comico a cura di Francesco Fiorentino clicca sotto su "segue".

 

Breve antologia di definizioni del comico

 

a cura di Francesco Fiorentino

 

 

 

Platone, Repubblica, X, 605c: "Non bisogna tenere lo stesso argomento a proposito del comico? Se ascolti in una rappresentazione teatrale o in una conversazione privata una buffoneria che ti vergogneresti di fare per provocare il riso e d’altra parte ci prendi un reale piacere invece di disprezzarne la mediocrità, non produci lo stesso effetto che nei sentimenti di pietà? A questo desiderio di provocare il riso che contenevi in te stesso grazie alla ragione per paura di passare per buffone, dai invece libero corso, e avendogli offerto in questa occasione la foga della giovinezza, finisci spesso per perdere la coscienza del fatto che ti sei eccitato in compagnia dei tuoi vicini al punto da diventare un fabbricatore di farse".

 

Platone, Filebo, 48c: "tutti quelli tra loro che aggiungono alla loro illusione [di sentirsi superiori] la debolezza e, quando li si prende in giro, sono incapaci di vendicarsi, tu sarai nel vero qualificandoli di ridicoli".

 

Aristotele, Poetica, V, 49: "Il comico consiste in un difetto o una bruttura che non causano né dolore né distruzione; esempio evidente è la maschera comica: è brutta e difforme senza esprimere dolore".

 

Cicerone, De oratore, II, 58, 236: "risibili sono soltanto, o massimamente, i detti che rivelano qualcosa di sconveniente in modo non sconveniente."

 

Montaigne (1533-1592), Essais (1580), libro I, cap. L: "La nostra condizione particolare è tanto ridicola quanto risibile."

 

Th. Hobbes (1588-1679), De Homine (1658): "Gli spiriti animali sono trasportati a una gioia improvvisa da qualcosa di conveniente detto o fatto o pensato da altri; e questa è la passione di chi ride. Infatti, se uno ha detto o fatto qualcosa di rimarchevole, a suo giudizio è inclinato al riso. Parimenti se un altro ha detto o fatto qualcosa di sconveniente per cui confrontandoci con lui ci sentiamo più bravi di prima, a stento potremo trattenerci dal ridere. E, in senso universale, la passione di chi ride consiste nell'improvviso riconoscimento della propria bravura, a causa di una sconvenienza altrui. Infatti non si ride in genere che per qualcosa di improvviso; e le medesime persone non ridono più volte della medesima cosa e dei medesimi scherzi. Inoltre, non si ride delle sconvenienze degli amici o dei consanguinei, perché non ci sono estranee. Gli elementi che muovono al riso sono tre congiunti insieme: sconvenienza, estraneità e subitaneità." (Th. Hobbes, L'uomo, in Elementi di Filosofia, Utet, Torino 1972, pp. 606-607)

 

J.-J. Rousseau (1712-1778), Lettre à d’Alambert sur les spectacles (1758): "Fortunatamente la tragedia così com’è risulta talmente lontana da noi, ci presenta esseri così giganteschi, così bolsi e chimerici che l’esempio dei loro vizi non è più contagioso di quanto quello delle loro virtù sia utile, e più essa vuole istruirci di meno, meno anche ci fa male. Ma non è così per la commedia, i cui costume hanno coi nostri un rapporto più immediato e i cui personaggi assomigliano più agli uomini. Tutto vi è cattivo e pernicioso, tutto ha gravi conseguenze per gli spettatori; lo stesso piacere del comico essendo fondato su un vizio del cuore umano, è conseguenza di tale principio che più la commedia è piacevole e perfetta, più il suo effetto è funesto sui costumi […] La sua [di Molière] maggiore preoccupazione è di volgere bontà e semplicità in ridicolo e di porre l’astuzia e la menzogna nel partito per il quale ci s’interessa; le sue persone oneste sono persone che parlano solamente, i suoi viziosi sono persone che agiscono che per lo più sono favoriti da un brillante successo; insomma l’onore degli applausi, di rado il più stimabile, è quasi sempre per il più capace." (J.-J. Rousseau, Lettre à d’Alambert sur les spectacles, Garnier-Flammarion, 1967, pp. 92-110)

 

J.-F. Marmontel (1723-99), articolo Comique dell’Enciclopedia (1753): "Comico, preso per il genere della commedia è un termine relativo. Ciò che è comico per un tal popolo, per tale società, per tale uomo, può non esserlo per un altro. L’effetto del comico risulta dalla comparazione che si fa, anche senza accorgersene, dei propri costumi con i costumi che si vede volgere in ridicolo, e suppone tra lo spettatore e il personaggio rappresentato una differenza vantaggiosa per il primo. Non che lo stesso uomo non possa ridere della propria immagine, persino quando vi si riconosce: ciò deriva da una duplicità di carattere che si osserva in forma ancora più evidente nel contrasto delle passioni, in cui l’uomo è incessantemente in combattimento con se stesso. Ci si giudica, ci si condanna, si scherza, come un terzo e l’amor proprio ci trova il proprio vantaggio." (Marmontel, Eléments de Littérature, t. I, Verdière, 1825, pp. 498-506)

 

I. Kant (1724-1804), Critica del giudizio (1790): "Il riso è un’affezione [moto corporeo], che deriva da una aspettazione tesa, la quale d’un tratto si risolve in nulla. Proprio questa risoluzione, che certo non ha niente di rallegrante per l’intelletto, indirettamente rallegra per un istante con molta vivacità. La causa deve dunque consistere nell’influsso della rappresentazione sul corpo e nella reazione del corpo sull’animo; e non certo in quanto la rappresentazione è oggetto di diletto (perché come potrebbe dilettare un’aspettazione delusa?), ma unicamente perché essa, in quanto semplice gioco delle rappresentazioni, produce nel corpo un equilibrio delle forze vitali [...] In tutto ciò che è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, dev’esserci qualcosa di assurdo." (I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari 1963, pp. 194-199)

 

G.W.F. Hegel (1770-1831), Estetica (1835): "A questo rimando si confonde spesso il ridicolo con quel che è propriamente comico. Ridicolo può divenire ogni contrasto fra l’essenziale e la sua apparenza, tra il fine e il mezzo, contraddizione con cui l’apparenza si supera in se stessa, ed il fine, realizzandosi, si priva della sua meta. Ma per il comico noi dobbiamo avanzare un’esigenza ancora più profonda. I vizi degli uomini, ad esempio, non sono affatto comici; la satira, quanto più stridenti sono i colori con cui dipinge la contraddizione che vi è tra il mondo reale e quel che l’uomo virtuoso dovrebbe essere, ci offre a questo riguardo una prova molto schietta. Stoltezza, insania, stupidità, prese in sé e per sé, non hanno bisogno affatto di essere comiche, quantunque ne ridiamo. In generale non c’è nulla che sia più contrastante di ciò di cui ridono gli uomini. Può muoverli al riso anche ciò che vi è di più piatto e banale, ma spesso ridono pure delle cose più importanti e profonde purché vi si mostri un qualsiasi lato del tutto insignificante che sia in contraddizione con le loro abitudini e la loro concezione quotidiana. Il riso è allora solo estrinsecazione di una saggezza compiaciuta, un segno che si è tanto saggi da riconoscere un simile contrasto e da saperla lunga in proposito. Parimenti esiste un riso di motteggio, di disprezzo, di disperazione ecc. Invece sono propri del comico l’infinito buonumore in genere e la sconfinata certezza di essere ben al di sopra della propria contraddizione e di non esserne affatto amareggiati e resi infelici: ossia la beatitudine e l’essere a proprio agio della soggettività che, certa di se stessa, può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni." (G.W.F. Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1976, pp. 1341-1347)

 

W.A. Schlegel (1767-1845), Corso sull’Arte Drammatica (1809): "[Lezione 6] L’antica commedia era una mascherata del mondo intero, dove si tolleravano molte facezie che l’ordinaria decenza non avrebbe permesse, ma dove pur brillavano non poche idee gaie, spiritose e anche istruttive che non si sarebbero mai manifestate senza questa momentanea rimozione di tutte le barriere di convenzione. […]

[Lezione 12] In una parola simili commedie [Il Misantropo] sono troppo didascaliche e troppo vi si scorge l’intenzione di istruire, dove non si deve mai dare nessuna lezione allo spettatore, se non di sfuggita e come senza badarvi. […] La classica reputazione di Molière conserva le sue opere in teatro benché esse siano visibilmente invecchiate riguardo alle maniere di società e alla rappresentazione dei costumi. E’ questo un pericolo che minaccia necessariamente quell’autore comico, le cui opere non posano in qualche modo su una base poetica, ma sono fondate unicamente sulla fredda imitazione della vita reale che mai non può far paghi i bisogni della fantasia. Gli originali di certi ritratti di Molière sono da lungo tempo spariti. L’ingegno che aspira all’immortalità deve esercitarsi su oggetti che il tempo non possa mai rendere inintelligibili, e dipingere la natura umana e non i costumi di tale o tal altro secolo." (W. A. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, Rossi-Romano Editore, Napoli 1859, XII lezione)

 

Jean Paul (1763-1825), Introduzione all’estetica (1804): "ma l’umorista preferirà accogliere sotto la sua protezione i singoli stolti e imprigionare invece lo sbirro della gogna con tutto il pubblico, perché quel che preoccupa il suo animo non è lo scenario della follia di questo o quel concittadino, ma la follia stessa degli uomini, cioè l’universalità. […] Le campagne belliche dello zio Tobia [personaggio del Tristram Shandy di Sterne] non mettono in ridicolo solo lui o Ludovico XIV; quei trastulli sono piuttosto l’allegoria di tutte le manie degli uomini: di quella testa di bimbo riposta nella testa di ogni uomo come in una cappelliera; per ben custodita che sia, di quando in quando essa si drizza ed esce all’aperto mostrandosi senza pudore, e sovente, sopraggiunta la vecchiaia, la vediamo lei sola, in mezzo all’argento dei capelli. […] Ma in questa derisione generale, che cosa differenzia l’umorista che riscalda l’anima dal canzonatore che la raggela, visto che entrambi sbeffeggiano tutto e tutti? Può l’umorista, ricolmo di sentimento, stare su uno stesso confine col gelido canzonatore che semplicemente esibisce il difetto opposto dell’atteggiamento empfindselig? Non è possibile; li distingue ciò che spesso distingueva Voltaire da se stesso o dai Francesi: l’idea annientante. […2] Parimenti Sterne, per esempio, si dilunga spesso nel ponderato esame d’un qualche avvenimento, per finire col tagliar corto e dire: comunque sia, in quelle parole non c’è un pizzico di verità. […3] Come il romanticismo serio, così quello comico – in opposizione all’oggettività classica – è il reggente della soggettività. […] Solo una certa confidenziale familiarità garantisce all’autore comico quell’amicizia compiacente con il lettore, che è necessaria a un simile instancabile inventore di eccentricità sempre nuove [Swift] – un’amicizia assai più necessaria a lui che non al poeta serio, interprete di sensazioni e bellezze millenarie. […4] Non vi è comicità senza il sensibile, e nell’umorismo, dove il sensibile si presenta come un esponente della finitezza applicata, non vi sarà mai una tavolozza troppo ricca. […] Consideriamo in dettaglio lo stile sensualista e metaforico dell’umorismo. Innanzitutto l’umorismo individualizza sino al minimo e poi continua con le parti già individualizzate. Shakespeare non è mai più individuale, ovvero più sensualista che nel comico. Per lo stesso motivo Aristofane possiede queste due qualità più di ogni altro antico." (Jean Paul, Il comico, l'umorismo e l'arguzia, Il Poligrafo, Padova 1994, pp. 132-149)

 

Madame de Staël (1766-1817), De l’Allemagne (1810), II, XXVI: "Gli scrittori di questa scuola hanno denominato comico arbitrario quel libero espandersi di tutti i pensieri, senza freni e senza un determinato scopo. A tale riguardo si basano sull’esempio di Aristofane, non certo perché approvino la dissolutezza delle sue pièces, ma in quanto colpiti dal brio che vi si fa sentire, e vorrebbero introdurre presso i moderni quella commedia audace che si prende gioco dell’universo, invece di limitarsi a ridicolizzare taluna o talaltra classe sociale. […] I Francesi, come autori comici, superano tutte le altre nazioni. La conoscenza degli uomini e l’arte di fare uso di questa conoscenza assicurano loro, a tale riguardo, il primo posto ; e tuttavia, forse a volte sarebbe auspicabile, persino nelle migliori pièces di Molière, che si desse meno spazio alla satira ragionata e una parte maggiore alla fantasia." (Madame de Staël, De l’Allemagne, Garnier-Flammarion, 1968, p. 21)

 

Stendhal (1783-1842), Racine et Shakespeare (1823): "La commedia di Molière è troppo intrisa di satira, perché mi dia spesso la sensazione del riso allegro, se così si può dire. Mi piace trovare, quando vado a rilassarmi a teatro, un’immaginazione folle che mi faccia ridere come un bambino. […] Oggi la corte non sta altro, o perlomeno così mi pare, che nella gente che ci va; e una volta cenato, dopo la Borsa, se mi reco a teatro, voglio che mi si faccia ridere, e non mi preoccupo di imitare nessuno." (Stendhal, Racine et Shakespeare, éd. M. Crouzet, Champion, 2006, p. 294)

 

V. Hugo (1802-1885), Prefazione del “Cromwell” (1827): "Nel pensiero dei moderni, al contrario, il grottesco ha un ruolo immenso. E’ dappertutto; da un lato, crea il difforme e l’orribile; dall’altro, il comico e il buffo. […] Il sublime sul sublime difficilmente produce contrasto, e occorre riposarsi di tutto, anche del bello. Sembra al contrario che il grottesco sia un momento di pausa dal quale ci si eleva verso il bello con una percezione più fresca e più acuta. La salamandra fa risaltare l’ondina, lo gnomo abbellisce la silfide." (V. Hugo, Prefazione del "Cromwell", Lisi, Taranto 2000, p. 49).

 

A. Bain (1818-1903), Wit and humour (1847): "L’esplosione del riso è il modo creato dalla natura per liberare l’organismo dall’opposizione di stati fisici e psichici inconciliabili, il cui conflitto altrimenti diverrebbe estremamente penoso. Esistono delle tendenze e dei movimenti organici che, quando si producono simultaneamente, spingono uno stesso organo in direzioni opposte e producono così un dolore intollerabile […]. Affermazioni contraddittorie creano un penoso dualismo nell’intelletto, negli atteggiamenti e negli impulsi motorio… Ora noi constatiamo a un attento esame che i sentimenti di venerazione, d’ammirazione, di considerazione e di timore rispettoso inducono un atteggiamento e un’espressione fisici ben determinati, mentre i sentimenti di naturale abbandono, di indifferenza, di familiarità, così come le funzioni animali o inferiori, determinano un atteggiamento esattamente contrario… Ma se accade che sensazioni opposte sorgono in noi contemporaneamente, o si presentano unite in rapporto a un solo oggetto, che cosa succederà, dato che non possiamo certo mantenere in noi due emozioni contrarie? O saremo dolorosamente sballottati fra forze opposte, oppure uno dei due sentimenti eclisserà completamente l’altro, oppure ancora saremo piacevolmente liberati dal riso, che è un ritorno, per mezzo di scosse convulsive, dall’atteggiamento nobile e solenne a quello di abbandono e familiarità."

A. Bain, The Emotion and the Will (1859): "Ciò che genera il riso è la degradazione di qualche persona o interesse, dotati di prestigio, in circostanze che non suscitano qualche emozione più forte."

 

Ch. Baudelaire (1821-1867), Sul riso (1855). "il Saggio, cioè colui che è animato dallo spirito del Signore, colui che possiede la pratica del formulario divino, non ride, non si abbandona al riso se non tremando. Il Saggio trema di avere riso; teme il riso, come teme gli spettacoli mondani, la concupiscenza. Egli si arresta sull’orlo del riso come sull’orlo della tentazione. […] Il riso, a loro dire, viene dalla superiorità. Non sarei stupito se dinanzi a una scoperta del genere il fisiologo fosse scoppiato a ridere pensando alla propria superiorità. Bisogna invece dire che il riso viene dall’idea della propria superiorità. Idea satanica come nessun’ altra! Orgoglio e aberrazione! Ora, è noto che tutti i pazzi dei manicomi hanno oltre misura sviluppata l’idea della propria superiorità. Non ho mai conosciuto pazzi affetti da umiltà. Si noti che il riso è una delle espressioni più ricorrenti e costanti della follia. […] per stare a uno degli esempi più volgari della vita, che cosa vi è di tanto spassoso nello spettacolo di un uomo che cade sul ghiaccio o sul selciato, che inciampa sull’orlo di un marciapiede, perché il volto del suo fratello in Cristo si contragga in modo disordinato, e i suoi muscoli facciali scattino di colpo come in un orologio a mezzogiorno o un giocattolo a molla? […] Qui è il punto da cui si deve partire: io, non cado io, io, cammino dritto io; io, ho piede saldo e sicuro. Non sono certo io a commettere la sciocchezza di non vedere un marciapiede sconnesso o una pietra che ostruisce la strada. […]

Ma vi è un caso in cui il problema si complica ancora. È il riso dell’uomo, un riso vero però, violento, alla vista di oggetti che non sono un segno di debolezza o di sventura dei propri simili. È facile intuire che intendo parlare del riso provocato dal grottesco. […] Dal punto di vista artistico, il comico è un’imitazione, e il grottesco è una creazione. […] Qui, voglio dire, il riso è l’espressione dell’idea di superiorità, non più dell’uomo sull’uomo, ma dell’uomo sulla natura. […] Se questa [ipotesi] sembra peregrina e alquanto difficile da sottoscrivere, è che il riso provocato dal grottesco ha in sé qualcosa di profondo, di assiomatico e di primitivo, molto più simile alla vita innocente e alla gioia assoluta che non il riso eccitato dal comico dei costumi. Tra queste due forme di riso, se si astrae dal problema dell’utile, sussiste la stessa differenza che corre tra la scuola letteraria con un fine e la scuola dell’arte per l’arte. Così il grottesco domina il comico da un’altezza in proporzione. Chiamerò d’ora innanzi il grottesco comico assoluto, in antitesi al comico usuale cui assegno il nome di comico significativo." (Ch. Baudelaire, Dell’essenza del riso e in generale del comico nelle arti plastiche, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1981, pp. 140-55)

 

F. Nietzsche (1844-1900), Umano, troppo umano (1878), I, 213: "Piacere nell’assurdo. Come può l’uomo trovar piacere nell’assurdo? Nella misura, infatti, in cui nel mondo si ride, ciò avviene; anzi si può dire che quasi ovunque ci sia felicità, c’è il piacere dell’assurdo. Il rovesciare l’esperienza nel suo contrario, ciò che ha scopo in ciò che ne è privo, il necessario nell’arbitrario, e però in modo che questo fatto non faccia alcun male e venga presentato solo per petulanza, allieta, perché ci libera momentaneamente della costrizione del necessario, dell’opportuno e di ciò che è conforme all’esperienza, cose tutte in cui noi vediamo di solito i nostri inesorabili padroni; noi scherziamo e ridiamo allora, quando ciò che aspettiamo (che di solito fa paura e causa tensione) si scarica senza nuocere. È la gioia dello schiavo nei Saturnali".

 

H. Bergson (1859-1941), Du rire (1900): "1. Ecco il primo punto su cui richiameremo l’attenzione. Non c’è altro comico al di fuori di ciò che è propriamente umano. Un paesaggio potrà essere bello, grazioso, sublime, insignificante o brutto; non sarà mai risibile. Si potrà ridere d’un animale, ma in quanto vi si sarà intravisto un atteggiamento dell’uomo o un’espressione umana. Si potrà ridere d’un cappello; ma in questo caso non è del pezzo di feltro o di paglia che si ride, ma della forma che gli hanno dato gli uomini, del capriccio umano su cui è modellato. Come mai un fatto tanto importante, pur nella sua semplicità, non ha suscitato una maggiore attenzione presso i filosofi? Molti hanno definito l’uomo «un animale capace di ridere». Avrebbero benissimo potuto definirlo un animale che fa ridere, poiché se qualche altro animale o oggetto inanimato mai ci riesce, è grazie a una somiglianza con l’uomo, all’impronta che gli ha dato l’uomo o all’uso che l’uomo ne fa. Adesso segnaliamo, quale sintomo non meno degno di nota, l’insensibilità che accompagna solitamente il riso. Sembra che il comico non possa produrre una scossa che a condizione di capitare su uno stato d’animo calmo, piatto. Il suo ambiente naturale è l’indifferenza. […]

2. Provate un momento a interessarvi a tutto ciò che si dice e a tutto ciò che si fa, immaginate di agire con coloro che agiscono, di sentire con coloro che sentono, infine dispiegate al massimo la vostra simpatia: come per incanto, vedrete gli oggetti più leggeri prendere peso, e una colorazione severa passare su tutte le cose. Ora staccatevi, assistete alla vita da spettatore indifferente: molti drammi si trasformeranno in commedia. Basta tapparsi le orecchie e non sentire la musica, in un salone in cui si danzi, perché i danzatori appaiano subito ridicoli. Quante azioni umane resisterebbero a una prova del genere ? […]

3. Soltanto che questa intelligenza deve restare a contatto con altre intelligenze. Ecco il terzo punto sul quale desideriamo attirare l’attenzione. Non si gusterebbe il comico se ci si sentisse isolati. Sembra che il riso abbia bisogno di un’eco. Ascoltatelo bene: non è un suono articolato, netto, finito; è un qualcosa che vorrebbe prolungarsi rimbalzando da vicino a vicino, un qualcosa che inizia con uno scoppio e continua rimbombando, come il tuono sulla montagna. E tuttavia tale ripercussione non deve proseguire all’infinito. Può camminare all’interno di un cerchio che, per quanto ampio, resterà sempre chiuso. Il nostro riso è sempre il riso di un gruppo. […]

Ciò che è risibile, in un caso come nell’altro, è una certa rigidità meccanica laddove si vorrebbe trovare la malleabilità attenta, la vivace flessibilità di una persona. Tra i due casi vi è una sola differenza, che il primo si è prodotto da solo e il secondo è stato ottenuto artificialmente. Il passante di prima si limitava a osservare; qui, il buffone sperimenta." (H. Bergson, Du Rire. Essai sur la signification du comique, PUF, 1993)

 

L. Pirandello (1867-1936), L’umorismo (1908): "Vediamo ora un esempio più complesso, nel quale la speciale attività della riflessione non si scopre così a prima giunta; prendiamo un libro di cui abbiamo già discorso: il Don Quijote del Cervantes. Vogliamo giudicarne il valore estetico. Che faremo? Dopo la prima lettura e la prima impressione che ne avremo ricevuto, terremo conto anche qui dello stato d’animo che l’autore ha voluto suscitare. Qual è questo stato d’animo? Noi vorremmo ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione di questo povero alienato che maschera della sua follia stesso e gli altri e tutte le cose; vorremmo ridere, ma il riso non ci viene alle labbra schietto e facile; sentiamo che qualcosa ce lo turba e ce l’ostacola; è un senso di commiserazione, di pena e anche d’ammirazione, sì, perché se le eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pur non v’ha dubbio che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico. Noi abbiamo una rappresentazione comica, ma spira da questa un sentimento che ci impedisce di ridere o ci turba il riso della comicità rappresentata; ce lo rende amaro. Attraverso il comico stesso abbiamo anche qui il sentimento del contrario. L’autore ha detestato in noi perché s’è destato in lui, e noi ne abbiamo già veduto le ragioni. Ebbene, perché non si scopre qui la speciale attività della riflessione? Ma perché essa - frutto della tristissima esperienza della vita, esperienza che ha determinato la disposizione umoristica nel poeta - si era già esercitata sul sen­timento di lui, su quel sentimento che lo aveva armato cavaliere della fede a Lepanto. Spassionandosi di questo sentimento e ponendovisi contro, da giudice, nella oscura carcere della Mancha, ed analizzandolo con amara freddezza, la riflessione aveva già destato nel poeta il sentimento del contrario, e frutto di esso è appunto il Don Quijote: è questo sentimento del contrario oggettivato. Il poeta non ha rappresentato la causa del processo, [...] ne ha rappresentato soltanto l’effetto, e però il sentimento del contrario spira attraverso la comicità della rap­presentazione; questa comicità è frutto del sentimento del contrario generato nel poeta dalla speciale attività della riflessione sul primo sentimento tenuto nascosto." (L. Pirandello, L’umorismo, Garzanti, Milano 1995, pp. 176-177)

 

C. Chaplin (1888-1977), La mia autobiografia (1964): "A metà canzone una pioggia di monete investì il palcoscenico. Mi interruppi immediatamente per annunciare che prima avrei raccolto il danaro e poi mi sarei rimesso a cantare. Questa uscita provocò le risa del pubblico. Arrivò il direttore con un fazzoletto per aiutarmi a raccattare i soldi. Io credetti che volesse tenerseli lui. Il pubblico, evidentemente, comprese miei timori e rise ancora più forte, specie quando egli uscì col danaro e io, preoccupato, gli tenni dietro. Non tomai in scena finché non l’ebbe consegnato a mia madre. Ero perfettamente a mio agio. Parlai al pubblico, ballai ed eseguii diverse imitazioni, compresa quella di mia madre mentre cantava una delle sue marcette irlandesi che diceva così:

 

Riley, Riley, that’s the boy to beguile ye,

Riley, Riley, that’s the boy for me.

In all the Army great and small,

There’s none so trim and neat

As the noble Sergeant Riley

Of the gallant Eighty-eight.[1]

 

E ripetendo il ritornello, imitai in tutta innocenza la voce di mia madre nel momento in cui si era spezzata. Rimasi sorpreso dalla reazione del pubblico. Echeggiarono applausi e risate, poi piovve sul palcoscenico una seconda ondata di monetine; e quando mia madre entrò in scena per portami via, la sua presenza suscitò un applauso fragoroso. Quella segnò la data della mia prima esibizione in teatro e dell’ultima di mia madre. [...]

Non tenterò di sondare gli abissi della psicoanalisi per spiegare il comportamento dell’uomo, che è inesplicabile come la stessa vita. Più che dal sesso o da aberrazioni infantili credo che la maggior parte delle nostre costrizioni ideazionali discenda da cause ataviche: però non devo leggere dei libri per sapere che il tema della vita è il conflitto e il dolore. Per istinto, tutta La mia comicità si basava su queste cose. Il mezzo al quale ricorrevo per creare l'intreccio comico era semplicissimo. Non si trattava che di mettere la gente nei guai per poi trarla d’impaccio.

Ma l’humour è diverso e più sottile. Max Eastman lo analizza nel suo libro intitolato A sense of Humour, dove giunge alla conclusione che esso deriva dall’«allegro dolore». Egli scrive l’homo sapiens è un masochista, il quale gode del dolore in molte forme, e che al pubblico piace soffrire per interposta per­sone come fanno i bambini quando giocano agli indiani; essi infatti si divertono a farsi sparare addosso e a patire gli spasimi della morte.

In questo sono perfettamente d’accordo. Ma si tratta più di un’analisi della tragedia che della comicità, anche se le due cose sono strettamente connesse. Pure, il mio concetto della comicità è lievemente diverso: essa scaturisce dalle sottili discrepanze che percepiamo nel normale comportamento umano. In altre parole, attraverso la comicità vediamo l’irrazionale in ciò che sembra razionale; il folle in ciò che sembra sensato; l’insignificante in ciò che sembra pieno d’importanza. Essa ci aiuta anche a sopravvivere preservando il nostro equilibrio mentale. Grazie all’umorismo siamo meno schiacciati dalle vicissitudini della vita. Esso attiva il nostro senso delle proporzioni e c’insegna che in un eccesso di serietà si annida sempre l’assurdo.

Per esempio a un funerale dove amici e parenti sono raccolti in rispettoso silenzio intorno alla bara del defunto, un ritardatario entra proprio mentre la funzione sta per iniziare e in punta di piedi si dirige frettolosamente al proprio posto, dove uno degli uomini in lutto ha lasciato il cilindro. Nella fretta, egli vi si siede accidentalmente sopra, poi con aria solenne, facendo le sue scuse silenziose, lo porge schiacciato al proprietario, il quale lo prende con un’espressione di muto fastidio senza smettere seguire la funzione. E la solennità della circostanza diventa ridicola." (C. Chaplin, La mia autobiografia, Mondadori, Milano 1964, pp. 18-20)

 

V. Jankélévitch (1903-1985), L’ironie (1964): "L’arte, il comico e l’ironia diventano possibili quando si rilascia l’urgenza vitale. Ma l’ironista si libera più ancora di colui che ride: quest’ultimo, infatti, spesso si affretta a ridere solo per non dover piangere, come quei paurosi che evocano rumorosamente la notte profonda per trovare coraggio; credono di prevenire il pericolo solo a nominarlo, e si fanno forti nella speranza di batterlo in velocità. L’ironia, che non teme più le sorprese, col pericolo ci gioca." (V. Jankélévitch, L’ironie, Flammarion, 1964, p. 9)

 

F. Orlando (1934-2010), Lettura freudiana del «Misanthrope» (1979): "Nella ricca casistica di formazioni di compromesso che secondo Freud, da buona manifestazione dell’inconscio, offre il fenomeno del motto di spirito, una è per noi di specialissimo interesse a questo punto. È quella che com­bina in qualche modo, anzi in modo tale che la loro con­vergenza risulta «deducibile teoricamente»[2], le due de­finizioni di comicità e di Witz. Accade che le tecniche spiritose lascino libero corso, in un motto, a forme di pensiero consuete nell’inconscio, ma che figurano neces­sariamente come errori di ragionamento al livello della coscienza. Il costo psichico di simili pensieri o ragiona­menti essendo inferiore a quello che il livello della co­scienza esigerebbe, la differenza implicita nel confronto ridonda per definizione in piacere comico[3]. Ma Freud parla in questi casi della comicità come di una «faccia­ta»; e può darsi, aggiunge, che «questa facciata sia desti­nata a ingannare chi osserva e indaga, che queste storie abbiano dunque qualcosa da nascondere», e che siano in grado «di nascondere non solo ciò che hanno da dire, ma anche che hanno qualcosa di "proibito” da dire»[4]. I mez­zi tipici della logica dell’inconscio, infatti, se in superficie possono divertire come non senso, secondo la logica che è la loro hanno perfettamente un senso: e una analisi lo ottiene senza sforzo raddrizzando lo «spostamento», che negli esempi dati è il principale dei mezzi in questione[5]. La stessa ostentazione di un assurdo di facciata suole na­scondere un giudizio «spostato» sull’assurdità di qual­cosa - cioè sempre, per meglio dire, di qualcos’altro[6].

Una variante dello stesso modello appaiono i motti con facciata «logica» anziché comica: di una logica so­fistica, esagerata, che dissimula anziché ostentarla l’erro­neità dei propri ragionamenti secondo il livello della co­scienza, e con ciò stesso ostenta fingendo di dissimularla la validità dei ragionamenti stessi secondo un’altra logica di fondo. È a proposito di questa variante che Freud ha sottolineato meglio l’incredibile precarietà e sottigliezza, l’estremismo bilaterale del compromesso raggiunto: «se una parvenza di logica è appiccicata sulla facciata di una storiella, il pensiero vorrebbe dire in tutta serietà: "co­stui ha ragione”, ma per via della contraddizione che vi si oppone non osa dargli ragione se non nell’unico punto in cui è facile dimostrare che ha torto. La pointe prescel­ta è il giusto compromesso fra la sua ragione e il suo tor­to, il che lungi dall’essere una decisione, corrisponde al nostro conflitto interiore »[7].

Un simile compromesso si presta meno che mai a es­sere formalizzato come un compromesso alla pari, visua­lizzato come l’esito di una tensione per cosi dire orizzontale. Ricorro anche stavolta a simboliche «frazioni», per­ché sono una formula che visivamente suggerisce bene l’idea di una tensione per cosi dire verticale, e qui può ricordarci che il torto letteralmente sovrasta e copre la ragione. Sappiamo che il torto corrisponde alla facciata di comicità (o di falsa logica) che sta per il momento del­la non-identificazione, e a cui più sopra ho riservato la formula NON SONO IO. Sappiamo che la ragione corrispon­de al fondo di complicità del Witz che sta per il momen­to della identificazione, e a cui più sopra ho riservato la formula SONO IO. La sovrapposizione non reversibile di queste due formule parziali ci permette di inserirne una completa e chiarificatrice, fra quella del modello freudia­no più generale, e quella propria a questo gruppo di motti di spirito:

 REPRESSIONE  = NON SONO IO   =  COMICITÀ

  REPRESSO             SONO IO             WITZ

Per i lettori della mia Lettura freudiana della «Phèdre» accentuerei la parentela della seconda formula con quella della negazione freudiana, se la abbreviassi cosi:  NON.

                                                                                                                                                                                                                                    SONO IO

 

E l’utilità della terza formula, in vista dell’analisi di una commedia di Molière come il Misanthrope, promette di rivelarsi abbastanza prolungata o ripetuta per consigliare di abbreviarla fin da ora cosi: C/W. Che infine il misan­tropo sia un personaggio tale da far coincidere la distanziazione comica di fronte a lui con un momento repres­sivo, e la complicità o identificazione in lui con un ritor­no del represso, è ipotesi probabile anche prima di intra­prendere qualunque analisi.

Mi rendo conto che fin qui sarà stato impossibile per i lettori non trovare astratta l’esposizione, quand’anche la si fosse trovata chiara. Ma la via migliore per dar cor­po ad essa con numerosi esempi passa ovviamente dalla lettura diretta del libro di Freud, di cui del resto non po­tevo riassumere in modo adeguato nemmeno la trattazio­ne teorica, e da cui sarebbe ozioso riprendere ora esempi e riprodurne il commento. Ritengo più interessante, prima di trarre conclusioni sull’esempio del Misanthrope, considerarne qualcuno che prendo da commedie diverse dello stesso Molière; o da altri grandissimi autori del secolo di triplice fioritura teatrale che si stende - via via in Inghilterra, Spagna e Francia - fra il tardo Cinquecento e il tardo Seicento. Osservo che è senza dubbio lecito, da brani di commedie (o di parti comiche di drammi), aspettarsi comicità. Ma mi chiedo, al di là dei nostri esempi: sarà frequente incontrarla allo stato puro della non-identificazione assoluta, quale l’ha teorizzata Freud senza distinguere fra natura e arte? Sarà per caso se mi è riuscito così facile trovare esempi conformi proprio al modello C/W, il quale insinua di soppiatto l’identificazio­ne dietro la facciata del suo opposto, e vincola il momen­to possibile anche in natura al momento che presuppone l’artificio verbale? Arte e identificazione non celebrano in questo modello una loro solidarietà tanto più imman­cabile quanto più, nel caso specifico, è paradossale?"  (F. Orlando, Lettura freudiana del «Misanthrope», Einaudi, Torino 1979, pp. 49-51).

 

 

 


[1] "Riley, Riley, ecco il tipo che ti metterà nel sacco / Riley, Riley, ecco il tipo che fa per me. / In tutto l’esercito grande e piccolo, / Non c’è nessun ed elegante / Come il nobile sergente Riley / Del prode Ottantottesimo".

[2] S. FREUD, II motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio, p. 225 (G.W. VI 232).

[3] Ibid., pp. 226-27 (G.W. VI 233-34).

[4] Ibid., p. 130 (G.W. VI 116).

[5] Ibid., pp. 71-80, e cfr. pp. 185-86 (G.W. VI 48-58, 187).

[6] Ibid., pp. 82 e 131-33 (G.W. VI 61,116-19).

[7] Ibid., p. 133: modifico la traduzione, perché la pointe, vocabolo francese tra virgolette nel testo tedesco (Littré: «Trait subtil, recherché, jeu de mots»), non può diventare, sia pure tra virgolette: il «punto» (cfr. G.W. VI 120).

 


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