Il senso della fine nelle narrazioni contemporanee
In The Sense of An Ending (1967) Frank Kermode s’interrogava sul finale narrativo e sulla sua capacità di illuminare a posteriori il senso di ogni racconto. Secondo la lettura teorica da lui elaborata, che faceva tesoro delle domande scaturite dallo studio della Bibbia e delle sue irradiazioni moderne, la narrativa (ma anche la poesia) rispondevano alla necessità umana di adoperare la finzione dell’arte per ricreare quella “fittizia armonia tra inizio e fine” che compenserebbe la precarietà esistenziale di individui “che nascono e muoiono sempre in medias res”.
Nel primo Ottocento, secondo Kermode, nel romanzo sono prevalse trame complesse, ma con una teleologia codificata, orientate a rappresentare quella
tranche de vie in cui una svolta, una
peripezia (fisica o emotiva) modifica per sempre il destino dell’individuo (a proposito di Jane Austen, Mazzoni ha parlato, ad esempio, di «romanzi di destino»). In questi romanzi, i finali suggellano, consolidano il percorso del romanzo, in qualche modo chiudendo il circuito di senso scaturito dall’
incipit. A partire dal secondo Ottocento – da Flaubert fino a Hardy – i finali si complicano, non chiudono, aprono all’irrisolto, all’incompiuto, e ancor di più ciò accade nel romanzo modernista, dove seppure si recupera una circolarità (si pensi a Joyce e Woolf , ma prima di loro alla
Tess di Hardy), il finale resta comunque afono, rimanda a un fuori del testo imprecisato, non trova la strada per ricongiungersi all’inizio, e ci consegna un senso dai contorni sfumati che toccherà al lettore e all’interprete ricalcare, per trovarvi un senso puntuale, instabile, tanto stratificato da sembrare inafferrabile.
E poi? Cosa succede dopo? Soprattutto all’indomani di una data – il ’45 – che, per quanto convenzionale, indica la fine di un mondo che ha vissuto e sperimentato la possibilità dell’apocalissi dopo Hiroshima e Auschwitz, facendo apparire come ingenua la stessa pretesa di un senso (Celan)?
Alla luce di tali riflessioni, dunque, ci si potrebbe chiedere: il recupero di forme di romance (Suttree di McCarthy), la costruzione seriale o ciclica delle narrazioni (serie Tv, graphic novel, cicli, infine trilogie: Kristof, ancora McCarthy, Bolaño, Auster, Siti), l’autofiction narrativa e la docu-fiction cinematografica (come racconti di una tranche de vie più o meno significativa), la diffusione capillare di forme parodiche dell’apocalisse, ma anche la poesia di Milo De Angelis e Giorgio Caproni, la fotografia di Salgado con i suoi richiami danteschi e biblici – per citare solo alcuni ambiti – cosa ci raccontano del rapporto della finzione contemporanea con il senso della fine?
E in chiave più inter artes: quale valore (di senso? Di non-sense?) ha il finale nell’ibridazione delle forme di rappresentazione, comunicazione e produzione artistica che caratterizzano la contemporaneità? Si è ulteriormente degradato il suo potere “armonico”? Si sono ristabilite forme mitiche o classiche di corrispondenza tra inizio e fine? Oppure la fine come tema (la violenza gratuita e la degradazione morale che pongono fine ai valori dell’umano, la morte senza trauma, i disastri ambientali, i contagi di massa) ha definitivamente rimpiazzato la costruzione di un finale pieno, compiuto, modellizzante?
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